The Hours regia di Stephen Daldry [Pensare] di Gerardo Monizza

 

Credere che un libro possa influire sulla vita di chi lo scrive e – soprattutto – di chi lo legge e lo leggerà è un desiderio di onnipotenza che gli scrittori neanche celano. Eppure, se qualche libro ha cambiato il corso degli eventi di un’epoca, si può accettare che “Mrs. Dalloway” abbia segnato l’esistenza di almeno tre donne. Il film “The Hours” parte da questo: dalla scrittura del libro (Richmond, Inghilterra: anno 1923) dovuta alla dolente creatività di Virginia Woolf (Nicole Kidman stupendamente abbruttita, spigolosa, appiattita nelle forme, dolorosa, esile e curva sotto il peso dei suoi pensieri); dalla lettura che nel 1951 ne fa Laura Brown (Julianne Moore bellissima e assente casalinga americana – di Los Angeles –) madre di Richard bimbo adorante, curioso e sensibile, attento e vagamente profetico. La terza tappa riguarda gli effetti che il concatenarsi degli eventi - successivamente - produrrà nell’anno 2001.

Cinquant’anni esatti dopo la stesura del libro d’origine le parole ed i pensieri che in esso sono raccolti avranno effetto su Clarissa Vaughan (Meryl Streep intensa e molto angosciata editor newyorkese, madre e lesbica) e amica di Richard, poeta ormai prossimo alla morte. Curioso: un libro dove i protagonisti si chiamano Clarissa e Richard capita nelle mani di persone che portano lo stesso nome. Un caso, un segno del destino o potenza dell’immaginazione? Riflettendo, in un continuo dialogo interiore, i personaggi del passato e del presente intrecciano i loro pensieri cupi; le loro vite infelici – pur condotte in totale anticonformismo – sono vissute in modo non naturale; la melanconia sfiora la depressione e l’ipersensibilità verso il destino degli altri, per le cose e il mondo provoca solo fragilità. Il suicidio è un mezzo, un fine o un sogno di libertà?

Omosessualità, amore, passione, delusione, sentimento e morte sembrano – nelle tre vicende che l’abile montaggio (Peter Boyle) intreccia con maestria – tenuti insieme dai “pensieri”.  Ciascuno dei partecipanti a questa storia, estesa per quasi un secolo, è assorto in pensieri e il riflettere – come sempre – porta alla conoscenza e al dolore. Dolore per la vita imprendibile (Virginia Woolf sempre sul bordo della pazzia finché non s’annegherà nel fiume); amarezza per la vita qualsiasi (Laura Brown casalinga non insoddisfatta, semmai inadeguata e che nel pensare quotidiano ritrova solo faticosamente il bandolo dei suoi turbamenti confusi e delle sue inclinazioni lesbiche non rivelabili); dolore per Clarissa che, se delle parole scritte fa mestiere, dell’amicizia ha una concezione esageratamente contorta, sofferta, totale. Richard stesso, adulto e malato di Aids e liberato da ogni pregiudizio (“mai vivere per imposizione”) eccita i suoi pensieri fino a liberarsene del tutto separando, con un volo tragico, il martoriato corpo dalla mente. La madre, Laura Brown invecchiata, conoscerà Clarissa restituendo alla realtà le figure dei suoi sogni.

Diretto da Stephen Daldry e tratto da un romanzo di Michel Cunningham (“Le ore”, pubblicato da Bompiani) il film è la storia di un’unica giornata per tre vite; poche ore nelle quali sembrano definirsi i destini delle tre donne. Ventiquattro ore scarse per capire e decidere, per pensare e agire. Tre momenti “storici” anche sottolineati da una confezione visiva in stile d’epoca: morbida e acquerellata per gli Anni Venti, coloratissima ed eccessiva per i Cinquanta, aspra e contrastante per l’anno finale della contemporaneità. Tre quadri continuamente spezzati, ma incollati dalla coinvolgente e – a tratti angosciante – colonna sonora di Philip Glass. Quanto a dire che, al di là delle nostre azioni c’è un continuo che ci lega e che ci coinvolge nel profondo, come i sentimenti che nascono dai pensieri di ciascuno e le azioni che ne derivano. Anche quelle tragiche.

Anna Karenina regia di Joe Wright [Infrangere] di Gerardo Monizza


Storia d’amore e di morte; rappresentazione delle passioni con un meccanismo raffinato che - tuttavia - non muove le emozioni. La vicenda di Anna Karenina ha stimolato una ventina di variazioni cinematografiche (celebre quella di Greta Garbo, 1935) perché il romanzo di Tolstoj (1877) ha il raro fascino della narrazione perfetta.

Ma il regista Joe Wright punta ad altro.

Se nel romanzo è la società di fine Ottocento che chiude all’Alta società qualsiasi possibilità di riscatto, quando infrange la legge, nel film invece si vogliono apertamente “infrangere le regole”. È detto chiaramente ed è la scelta dello sceneggiatore Tom Stoppard. Interessante dunque il ribaltamento non della vicenda bensì del comportamento dei protagonisti. Risultato: tutto è falso, tutto è rappresentazione, tutto è apparenza.

Stoppard solitamente gran dialogatore (sue le sceneggiature di Brazil, L’impero del sole,Rosencrantz e Guildestern sono morti; Vatel, Shakespeare in love) in Anna Karenina (2012) forza la mano modernizzando le figure di una vicenda che, fuori dal proprio tempo, diviene incomprensibile e che non trasmette emozioni.

Eppure l’idea del film è geniale: l’amore adulterino di Anna (Keira Knightley, bellissima ma troppo giovane) con il conte Aleksej Vronskij (Aaron Johnson, un ragazzo…) e il susseguirsi degli incontri in società e l’intreccio di varie storie - essendo rappresentazione di un mondo - avvengono in un teatro. Anzi: in quel teatro che è il mondo dove tutti guardano, partecipano, recitano. Alternandosi alla ribalta o rimanendo sullo sfondo. Com’è nella vita.

Geniale perché a tratti l’incastro tra personaggi e storie è ottenuto dal regista Joe Wright (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, Hanna) spostando solo lievemente il punto di ripresa. E tutto cambia.

Il movimento a vista delle scenografie teatrali, l’abbassarsi dei fondali, il passaggio degli attrezzisti (che diventano popolo o camerieri), gli oggetti che si modificano assumono un preciso valore narrativo. Tutte le “figure” sono, in momenti diversi, protagoniste e comparse.

Alcune sequenze sono memorabili: la presentazione di Anna che passa diversi ambienti che mutano di stile, arredamento, colore… Stupefacente la corsa con i cavalli che attraversano il palcoscenico… Riuscitissimo l’uso del treno giocattolo che viaggia nel plastico di ghiaccio finto, foriero di una morte vera.

Poi, inspiegabilmente, c’è uno scarto e si abbandona il teatro per uscire all’aperto. Il meccanismo s’inceppa e sembra che i personaggi vivano un’altra storia, estranea e infelice. Tutto diventa incredibilmente più falso. Anche l’amore tra Anna e Vronskij, tra i veri verdi prati della realtà, sfiora il ridicolo e i personaggi cadono nel banale e la pervicacia con cui si mettono nei guai è ingiustificabile. Si capisce che finirà male.

Se una lezione ci viene (dal film) è che le regole si possono infrangere quando si ha sotto controllo la complessità dei rapporti all’interno di una comunità ovvero società (in questo sta il senso della rappresentazione nel teatro); ma quando si esce all’aperto non tutto o forse niente può essere infranto perché non lo conosciamo, ma lo subiamo e – sempre - ne moriamo.

Nov
4

Oggi, 4 novembre 2008, vorrei ricordare la guerra terminata 90 anni fa: vorrei ricordarla come mi è stata insegnata dalle donne della mia famiglia.

Mia madre era orfana di guerra; anche mia suocera. Due bambine che non hanno conosciuto il padre e che, dopo decenni, ne vivevano l’assenza in modo lacerante.
Mia madre mi ripeteva in mille occasioni: Tu non sai quanto sei fortunata ad avere il tuo papà, tu non sai che cosa vuol dire esser senza padre.
Anche il fratello di mio padre è morto nella stessa guerra (era un ‘ragazzo’ del ’98): le sorelle minori lo nominavano sempre, ricordandolo con mestizia.
La nonna materna, anche lei mi ricordava sempre il nonno morto in guerra. Era un ufficiale. Un giorno aveva scritto alla moglie di aver partecipato da volontario ad un’azione particolarmente pericolosa. La moglie, a sua volta, gli aveva scritto: “Alessandro, perché ti sei esposto così? Dovevi mandare qualcuno dei soldati. Ricordati che hai tre figli piccoli.” E il nonno aveva risposto: “Proprio perché ho tre figli sono andato avanti io: i miei soldati, chi ha sei figli e chi ne ha sette.”
Mia suocera raccontava spesso di esser andata, bambina, all’inaugurazione del monumento ai caduti. Terminata la cerimonia, molti si affollavano intorno al monumento, cercando il nome dei congiunti. Mia suocera, bambina analfabeta, ha fatto cercare ad un uomo il nome che le stava a cuore: lo ha guardato fisso fisso per ricordarsi bene il posto; poi ha detto: È papà mio, e si è messa a piangere piano piano. Ha pianto fin che è arrivata vicino a casa; poi si è asciugata le lacrime, per non dover render conto al patrigno.
Io tante volte ripenso a questi racconti e piango anch’io, sola sola, in casa, a 90 anni da quei fatti; fatti che son successi 40 anni prima che io nascessi.

Queste donne mi hanno trasmesso tutto il loro dolore.

Ma nessuna di loro mi ha mai detto chi avesse ucciso il loro padre, il fratello, il marito. Erano semplicemente morti in guerra, in quella terribile calamità senza nemici. Solo a scuola ho studiato che dall’altra parte del fronte c’erano gli austriaci.
In casa non mi è mai neppure stato detto che ‘avevamo vinto’ la guerra: la guerra, a casa nostra, non finiva con la vittoria; neppure con la pace: finiva con la spagnola…
(L’epidemia di spagnola: la mia nonna materna curata dal veterinario, perché tutti i medici del quartiere erano morti; mia suocera, con la mamma e la sorellina, buttate sul letto stremate e digiune per giorni, senza alcuna assistenza…)
Così mi è stata lasciata questa memoria di un dolore irreparabile, ma senza nessun odio da perpetuare, nessuna vendetta da compiere.

Quando avevo circa 30 anni, sono stata turista in Austria e proprio la prima sera, ad una festa campestre, ho visto un anziano con cinque o sei medaglie sul petto. Ho pensato: forse una di quelle medaglie l’ha avuta per aver ucciso il mio nonno materno. Mi sono sentita molto male, perché era la prima volta che guardavo un uomo e pensavo che fosse il nemico. Assomigliava vagamente al mio nonno paterno ed io pensavo che forse era “il nemico”….
Il giorno seguente, nello stesso paesino austriaco, ho visto una lapide, con un numero incredibile di nomi e di date di morte: erano i tanti caduti di quel piccolissimo paese nella guerra del ‘15-‘18 (anzi: ‘14-‘18). Vicino a molti nomi e date era scritto italien, italien, italien: erano i caduti sul fronte italiano. Allora ho pensato: Forse uno di questi soldati è stato ucciso dal mio nonno. Ossia: Il nemico sono io.
E così, una grande tristezza ha pareggiato la tristezza della sera prima.

Questa è la guerra che ho imparato in famiglia.

Questa capacità di memoria senza odio, di dolore senza vendetta credo sia una parte grande della nostra cultura italiana, occidentale, europea, o come la vogliamo chiamare.
Imporla ad altri è un’operazione senza senso e senza possibilità di riuscita.
Rispettare –noi per primi- questa cultura in cui siamo nati credo sia tanto un dovere, quanto una fortuna.
Vivere serenamente la nostra vita, insieme a chi ha altre radici e vuol condividere con noi giorni ed anni di pace (a partire da altre idee e altri ideali): questo è il miglior futuro che possiamo augurarci.

Caterina De Camilli
caterinadeca@libero.it

Sabato sera. Sono passate un paio d’ore dall’inizio dell’assembramento e la piazza Cacciatori delle Alpi è piena d’auto e di giovani. Il vociare aumenta fino allo schiamazzo, alle urla. Qualcuno s’affaccia alla finestra e grida di smettere. La reazione è immediata ed esplode un diverbio a distanza. Dalle finestre s’invita a smettere; dalla piazza s’invita ad andare a quel paese… Le parole si fanno grosse come pietre. Dalla teoria ai fatti il passo è breve: alcuni ragazzi raccolgono qualcosa da terra e lo lanciano verso le finestre.
Si chiama il 113. Cortesemente (e anche con un velo di disperazione) l’agente riferisce che altre chiamate sono pervenute e che si è disposto l’arrivo dei Carabinieri. Sono le 0.45. Qualche minuto dopo un’auto della polizia proveniente da viale Cavallotti passa davanti allo schiamazzo e va oltre, verso viale Varese. Forse ha altri urgenti impegni.
Una e dieci: la roteante luce blu delle civette avverte dell’arrivo dei Carabinieri. La maggior parte dei giovani che stazionano sulla piazza si dilegua per altre strade. In un attimo. Quelli sotto il Politeama non si muovono. Giungono due auto da via Gallio e si arrestano all’ingresso della piazza. Una sale e con manovra complessa (districandosi al meglio dalle auto in sosta abusiva) si mette poi di traverso. Gli agenti non escono subito dall’abitacolo. I ragazzi guardano abbastanza perplessi. Una e venti: arriva una terza auto dei CC. Scende un graduato. Gli autisti delle altre auto, a quel punto, escono e si avvicinano al comandante. Si salutano, parlottano. I due agenti s’avviano verso il Politeama e per qualche minuto confabulano con alcuni giovani (chiedono i documenti? trattano la resa?).
Una e trenta. Arriva la Guardia di Finanza. Quarta auto delle forze dell’ordine sulla piazza. Parcheggia. Gli agenti scendono. Salutano i colleghi, parlottano. Una e trentacinque: arriva la Polizia locale che si pianta sull’ingresso impedendo a tutti d’uscire. Scendono, salutano i colleghi, parlottano. Che fare? pensano i giovani che progettavano di portare le loro auto fuori dalle grinfie delle polizie.
Il clima è sereno; la notte tiepida. Molti giovani ritornano in piazza col bicchiere in mano; due fanno pipì sul ponte d’ingresso del parcheggio sotterraneo. In verità alcuni sono ritornati con il preciso intendo di recuperare l’auto e uscire indisturbati come di fatto fanno. E siccome l’ingresso (ovvero l’uscita) è ostruito dall’auto della Polizia locale molto cortesemente gli agenti spostano l’ingombrante mezzo e così in molti lasciano la piazza indisturbati.
Passano i minuti nella più assoluta tranquillità e mentre i giovani riprendono le azioni consuete, le polizie ad una ad una lasciano la scena. Non un battibecco, non una discussione, non una multa. Che civiltà. E’ l’una e cinquanta minuti esatti. Tutto torna come prima. Fine della repressione.

La scena si ripete ogni sera: davanti al Politeama circa duecento ragazzi e ragazze. Stanno metà sotto le pensiline del teatro dismesso, fuori dal bar, sul marciapiede. L’altra metà sta sulla piazza Cacciatori delle Alpi. Ridono, scherzano, corrono. Talvolta giocano a palla. Arrivano in auto e parcheggiano dove è vietato. E’ la consuetudine che diventa regola: non scritta (il cartello è comunque ben visibile), ma presto accettata.
I giovani si divertono, ma i residenti si disperano. Si dice che la presenza di tanta massa crei paura. Forse. Ma di che? Neanche ti degnano di uno sguardo mentre passi attraverso la folla vociante e divertita. Girando alla larga, insomma ruotando oltre l’edicola e il bar, nemmeno si accorgono delle presenze estranee. Son massa che nel raggruppamento trova la forza di infrangere le regole. Quali? Non si disturba “la quiete pubblica” oltre una certa ora; non si parcheggia dove è vietato; non si “lorda” il suolo pubblico (quanto costa alla comunità il lavoro straordinario degli operatori ecologici che la mattina cancellano le tracce del bivacco?); non si gioca a pallone sotto le finestre dei dormienti; non si canta a squarciagola; non si balla fuori dell’auto al suono di musiche tenute al massimo del volume; soprattutto non si fa pipì qua e là e possibilmente non si vomita. Continuare con le regole sarebbe pedante, ma tant’è.
Che fare, dunque, in attesa che il Comune metta le telecamere utili ma non risolutrici (serviranno solo a spostare la massa altrove e il problema “divertimento giovanile” rimarrà intatto).
Le chiamate delle Forze dell’Ordine sono all’ordine del giorno, ma i risultati sono pochini. Qualche tempo fa la Polizia locale s’è mossa vibrando 42 multe in un sol colpo (così recitava un comunicato); peccato che a subirle siano stati i residenti anche perché era tardo pomeriggio e di giovani – a quell’ora -  non si vede l’ombra.
Le regole dunque esistono, ma ancor prima la buona educazione. Tuttavia né alle prime né alla seconda possono far appello le Polizie che più volentieri si mettono a discutere coi ragazzi e le ragazze ed è un sistema che forse darebbe qualche risultato se vi fosse continuità e se i giovani accettassero il principio di critica e se tutti non fossero convinti di essere nel giusto; anzi non fossero convinti che il divertimento sia un diritto da pretendere a tutti i costi. Anche a costo di andare contro ogni logica e legge.

Il difficile viaggio della fiaccola olimpica rivela all’universo mondo quanto siano fragili e complicate le relazioni tra le genti. Pace e serenità sono due parole che non corrispondono alla situazione dei rapporti tra le nazioni; non corrispondono alla capacità di reciproca comprensione. I giochi olimpici sono un affare molto economico troppo politico e per niente sportivo. Lo sport, quello inteso come sana e robusta competizione tra gli atleti, è divenuto una lotta senza frontiere tra multinazionali produttrici di record e sofisticherie di strumenti, attrezzi, abiti ecc. Insomma: economia.

Niente di male, in sé, ma ingombrante se diventa la sostanza di una questione internazionale che contrappone paesi ricchi a paesi poveri; tra occupanti ed occupati; tra vittime e carnefici.

Nell’infinita catena che lega le nazioni (Tibet e Cina, Taiwan e Cina) la vicinanza degli anelli rischia di far spezzare tutto il delicato equilibrio che tiene apparentemente insieme gli Stati del mondo. Bisogna essere chiari e sinceri: i Giochi olimpici (come anche le Expo, le Fiere, i Festival cinematografici ecc) sono solo occasioni di scambio nel sempre più vasto mercato globale. Farne una questione di principio o una bandiera ideologica non porta a nulla; boicottare l’evento attizza il fuoco delle polemiche e rinunciare alla partecipazione diventa un grave danno economico per chi ha investito soldi, idee, tempo.

Non rimane che abbassare i toni; lasciare che le cose vadano per la loro strada naturale; permettere che si spengano da sole. Anche a rischio che la fiamma olimpica accenda un’ultima volta il braciere delle false buone intenzioni. L’oblio non è forse la condizione più giusta per molte cattive azioni umane? anche di quelle che appaiono più nobili e utili come i Giochi olimpici internazionali?

Gerardo Monizza

La torcia olimpica non passerà da Taiwan
[riceviamo e pubblichiamo] Pechino e Taipei non sono riuscite a trovare un accordo sulle modalità di consegna del simbolo olimpico. L’isola diviene così il primo Paese a non essere toccato dal percorso della torcia sin dalla riapertura dei Giochi Olimpici, nel 1896.

Taipei (AsiaNews/Agenzie) – La torcia olimpica non passerà da Taiwan. Il governo cinese e quello taiwanese, infatti, non hanno raggiunto un accordo sulle modalità di consegna del simbolo olimpico. L’isola diviene così il primo Paese a non essere toccato dal percorso della torcia sin dalla riapertura dei Giochi Olimpici, nel 1896. (passerà dal Kossovo dichiarato indipendente dalla EU e USA ?)

Lo ha annunciato il Comitato olimpico internazionale: “Il tempo corre e la logistica ha le sue necessità. Per questo, la torcia non toccherà Taipei”. Yang Chung-ho, presidente del Consiglio taiwanese per gli affari sportivi, ha commentato: “Siamo profondamente addolorati. Il simbolo olimpico non verrà a Taiwan a causa delle irragionevoli richieste di Pechino”.

Il riferimento è alle condizioni imposte dal governo cinese: durante la permanenza a Taiwan, accanto alla torcia non avrebbero dovuto essere issate bandiere nazionali,(!) emblemi o cantati inni locali. Anche Taipei aveva posto le sue condizioni: la torcia non doveva provenire da Macao o Hong Kong, ma non doveva neanche essere portata in Cina dopo lo stop sull’isola: questo “per timore che Taiwan venga considerata una parte del territorio cinese”.(come infatti il governo cinese-popolare considera Taiwan, in attesa di impadronirsene come per il Tibet!)

Mercatino delle intenzioni

“… Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro dicendo:
“Non sta forse scritto:
La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?
Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!
[Marco, 11 15-17]

Scava scava prima o poi si troverà oro. Per ora e andando in ordine alfabetico siamo allo strato amianto, arsenico ecc. Insomma quella ticosa è una vera schifezza ed è davvero un peccato non averci pensato prima (lasciandola andare tutta alle ortiche). Ora che s’è tolto il ruderoso coperchio la nuda terra rivela il marcio.
Nessuno lo sapeva?
Difficile credere al film dell’avventurosa scoperta del suolo come avrebbero potuto fare - diciamo - nel buio medioevo. Assurdo immaginare che tecnici, specialisti, imprese e tutto l’apparato politico burocratico non sapessero nulla. Mai sentito parlare di indagini preliminari, di analisi del suolo, di carotaggi? Adesso si scopre l’arsenico; a quando lo strato di assenzio, di cianuro, della cicuta, fino alla rucola? Tutto ciò rivela purtroppo che, nonostante i decenni trascorsi dall’acquisto (1981) alla demolizione (2007), non è ancora stato compiuto un serio e definitivo lavoro di programmazione e di progettazione.
Quel che abbiamo visto (compresi fuochi artificiali e benedizioni vescovili) era solo fumo. Peccato che dentro ci fossero polveri d’amianto, ma chi lo poteva sapere.

Feb
16

Rovesciare la situazione, stupire, aggiornare, rivoluzionare; non bastava controllare? La storia dei Pass ovvero permessi temporanei detti ZTL (acronimo che sembra il nome di un gas mortale) sta diventando una questione comunale, cioè di Stato. Spezzeremo gli abusi (e arrostiremo gli abusivi?) dice l’Assessore alla mobilità deciso ad andare in fondo fino all’ultimo Pass. Perché i casi sono due: o sbagliano coloro che autorizzano i Pass o imbrogliano coloro che li usano. Non è difficile da capire.

C’è persino un’ordinanza (N. 355/200 del 2003: “Disciplina viabilistica in Zona a Traffico Limitato” firmata Bruni) che fissa le regole di concessione ed anche le sanzioni. Una cosa normale: né di destra né di sinistra.

I Pass servono a far funzionare la Città murata; a darle quel ritmo sociale, economico e commerciale necessario perché attività e persone non l’abbandonino del tutto. Trenta anni fa era abitata da 14mila residenti ridotti oggi a 4mila; le cifre significheranno qualcosa. Per fermare l’emorragia demografica bisogna attivare cure immediate fissate da regole precise. Il Pass serve per mantenere il contatto tra residenti e realtà circostante; tra commercio e produzione. Poi servirebbero anche parcheggi, ma questa è un’altra faccenda.

Entrare ed uscire dal cuore di Como non deve essere un abuso per pochi, ma un diritto di molti. Limitare esageratamente l’accesso può provocare la definitiva morte della città storica, favorendo solo i privilegi. Basterebbe convincere le molto carine mogli dei medici a non approfittare del Pass del marito (ovviamente anche viceversa); i furgoni a non andare contromano (come fanno anche alcuni assessori) e tutti a non parcheggiare per giorni interi quando potrebbero solo per un’ora. Nessuno può scagliare per primo la pietra (che come un boomerang gli ritornerebbe in testa), ma non è cancellando un diritto che si risolve una necessità. Riversare poi le responsabilità sulla Polizia locale è un po’ come sparare sulla Crocerossa: viene inviata in missione multa quando la situazione degenera in un manifesto abuso da parte di troppi cittadini; ma la situazione è molto più complessa. Perché in via Volta la mattina parcheggiano decine e decine di auto delle Polizie locali della provincia (che l’ordinanza per la verità autorizza). Tutte per servizio in Prefettura? Tutti siamo in servizio eppure parcheggiamo dove possiamo e sempre a rischio. Quasi trecento Pass alla Finanza cosa preludono? Altrettanti all’Esercito, Carabinieri, Aeronautica? (che per servizio già possono entrare anche col mezzo privato). Perché in fondo alla via Volta parcheggiano cinquanta auto civili? Di chi sono? E quelle in piazzetta del Gesù? In piazza Mazzini c’è davvero un bel movimento e si possono contare almeno trenta auto con Pass che si rubano il posto. I problemi non sono dunque né le regole e neppure gli uffici comunali o la Polizia locale, ma è la mentalità corrente che favorisce e sostiene l’abuso continuo da parte di molti cittadini. Non serve dunque ripartire da zero (come se fino ad ora tutto fosse sbagliato), ma continuare a considerare la città (Murata) come una parte vitale della città più vasta che nel centro storico trova ancora un punto di riferimento sociale, culturale, commerciale e - magari - anche ideale.